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Foto: .gif | Homo Balcanicus
Edizioni del Aleandro, Roma, 2000
(Framento)
CONVIVENZA: MISSIONE POSSIBILE?
Alex Gilasi scrive: “Ora credo che il Kosovo farà formalmente parte della Serbia, ma io sono preoccupato che la perdita serba nel Kosovo sia stata tale che i serbi diranno che poiché è stata presa con la forza, essi grideranno vendetta. La Serbia non è una nazione che dimentica, pensa ancora alla battaglia del Kosovo di 600 anni fa. Non dimenticherà questa sconfitta di adesso. Io ho un figlio di 4 anni e non voglio che a 20 vada a combattere in Kosovo. Per questo spero e mi auguro che la NATO faccia qualcosa perché i serbi restino in Kosovo e creino la democrazia multietnica promessa”.
I serbi
Tre sono i grandi elaboratori del nazionalismo serbo: il potere politico, l’intelligenza e la Chiesa Ortodossa.
Questo ti fa pensare che la società serba si possa aprire di più verso l’economia di mercato, possa democratizzare maggiormente la vita del confronto politico interno, da poter scegliere un giorno di ottobre 2000 anche una classe dirigente più tollerante e più vicina all’Occidente.
Tutto questo potrebbe migliorare questa società e la sua elite, ma per il nazionalismo ancora si nutrono minori speranze.
Ancora non si è arrugginito nessun ingranaggio della “Naçertanja” di Ilia Garashanin, della “Espulsione degli Albanesi”di Vasha Cubrillovic, del “Memorandum circa la questione attuale”.
La macchina mostruosa è intatta, è pronta a ricominciare l’indottrinamento dei serbi, anche se in vari modi “soft”. Sopratutto di più dopo quanto ha perduto: il Kosovo.
Nella primavera del 1389, avendo perso il Kosovo con i turchi, quella macchina si rese più furiosa e fermentò centinaia di anni per preparare psicologicamente quell”azione costante antialbanese che applicò appena fu creato il suo primo Stato.
Per la mentalità mitizzante serba, la NATO di questo fine millennio non differisce in alcun modo dall”Impero ottomano di 600 anni fa.
Nemmeno Bill Clinton si differenza dal Sultano Muradi.
La società serba non si è ancora liberata di questo incubo, si ritrova ancora sotto questo tiro incrociato. Era pronta ad accettare la decapitazione del suo re Slobodan per poi erigergli in un momento oportuno un altro monumento intorno al quale riunire nuovamente un milione di serbi.
La macchina dei “miti” micidiali ultranazionalista serba è completamente oleata, funziona regolarmente. Funziona meglio quando c’è una disfatta come questa di fine millennio.
E’ancora programmata a commettere azioni antialbanesi.
Lo scrittore e pittore serbo Mamo Kapor dice “....noi non possiamo perdere il Kosovo, perché è nella testa dei serbi”.
Intanto gli albanesi del Kosovo accettano di discuttere su tutto eccetto che sul distacco della loro regione dalla Serbia e perfino dalla Iugoslavia, o meglio, da quello che ne è rimasto. La loro formula intatta rimane sempre l’indipendenza.
Questo dimostra che il seme del conflitto si trova sempre là, tra Belgrado e Pristina.
Per niente diminuito.
Il noto scrittore russo Jevgenij Jeftushenku, riflettendo sulla situazione della penisola balcanica, ha scritto: “Attenzione ai Balcani, è una miniera di guerre!”
Così, per giungere ad una soluzione stabile nella regione, siamo obbligati a sognare e lavorare per tre speranze.
Il politico
Presso molti di popolazioni balcaniche sopravvive a lungo un tipo particolare di demagogo, che esercita con molta soddisfazione la professione del politico. Questo accade perchè oltre alle grandi trasformazioni democratiche nella società greca, gli altri paesi, anche se in dimensioni diverse, si trovano ancora in fase di formazione. Ciò crea le condizioni favorevoli perchè il tipo imbroglione politico sia in maggioranza, di successo e viva più a lunga.
Ma anche le numerevoli ridivisioni territoriali proseguite nei Balcani, effetto immediato dei cambiamenti nell’Ordine Mondiale, hanno moltiplicato la razza dei politici dipendenti o influenzati da precisi paesi stranieri e che hanno tralasciato non solo una volta gli interessi nazionali.
Perciò, questo tipo di politico incapace e senza voglia di costruire il destino del popolo, lo distrugge invece.
Ecco perché questo tipo di politico spera nell’effetto immediato della violenza, della paura, nella stanchezza dei cittadini che si fanno mettere sotto ai piedi da un clan.
Lui non capisce che un giorno verrà sconfitto, perderà, scomparirà travolto da revoluzioni o elezioni pacifiche.
Erano tali Franjo Tuxhman e Slobodan Miloscevic. I tipici rappresentanti della mentalità oltrepassata balcanica.
E gli ultimi della penisola. Uscirono dalla scena entro il 2000. Un’uscita fu aiutata dalla morte umana da tumore, un’altra fu dettata da un\\\'incredibile quanto irrealizzata fino in fondo rivoluzione.
La trasformazione mise in rilievo un nuovo politico: Vojsllav Kostunica.
Presantò anche al mondo la pericolosa armata di Slobodan Miloscevic: il DOS.
In verità Kostunica era un vecchio politico, membro della generazione di... Zoran Gingi. Anche se la sua formazione politica aveva una trascurabile fascia d’elettorato, non spiccò mai come diverso dai suoi colleghi. Almeno sul problema del Kosovo era nazionalista tanto quanto loro.
Avendo diretto uno dei tanti partiti trascurati, il suo nazionalismo non aveva mai dato nell’occhio. Gli ambienti che hanno avuto la possibilità di conoscerlo più da vicino a Belgrado sostengono che gli atti discriminanti verso di lui erano stati giustificati da Slobodan Miloscevic con l’accusa di essere un ultranazionalista. Poteva anche non essere completamente così, perchè tra le classi titiste e post titiste in Iugoslavia e i professori o accademici c’è sempre stato un duello sulla questione. Questi ultimi sono stati ogni volta criticati per l’eccesso delle loro aspirazioni nazionaliste.
Ma furono i kosovari a provare “il segreto” di Kostunica. Mentre l’uomo si presentava come candidato dell’opposizione e si confrontava con Miloscevic, un loro giornale pubblicò una foto in cui il futuro presidente iugoslavo teneva in mano un automatico “kallashnikov”.
Si trovava accanto a lui uno dei paramilitari serbi che commisero nella primavera del 1998 la pulizia etnica tra gli albanesi e il loro allontanamento massivo.
Il territorio su cui era stata scattata la foto era il Kosovo.
Il momento: quando l’Alleanza Atlantica bombardava la Iugoslavia.
La prova fotografica fece il giro del mondo, ma stranamente non divenne comprometente pre Vojslav Kostunica.
L’uomo venne considerato “moderato”.
Gli albanesi si temono se Milosevic era il prodotto della nomenclatura comunista, Kostunica sarà il prodotto della nomenclatura “democratica”. Il primo ed il secondo “Slobodan” saranno gli anelli di una stessa catena che è pronta a bloccare la libertà di un altro popolo non serbo.
La sola differenza sarà che gli anelli di acciaio dell’una saranno sostituiti da quelli dorati dell’altra.
Col fine di risolvere il problema del Kosovo in favore della riconciliazione con la Serbia o la Iugoslavia, dove spera di avvicinare anche il Montenegro, Kostunica ha “moderato” i mezzi. Non usa la guerra, pazzia scelta solo da Miloscevic. Ma tutto il resto.
Sa che verrà senz’altro notato il fatto che la classe politica ha fatto del territorio una legge di sopravvivenza notoriamente dichiarato da un alto rappresentante di Belgrado: “Nel caso in cui il Kosovo venga perso, nessun governo serbo riuscirebbe a durare a lungo”.
L’intelettuale
L’intellettuale serbo per tradizione è un uomo politicamente impegnato e legato al destino della sua nazione. Egli crea modelli e genera aspirazioni. E’capace di trasformare forza alle masse e può assurgersi a tribuno.
E’ un artista ed ha l’animo del poeta. La sua parola è fertile.
Come tutti i serbi intellettuali di questa etnia è una persona emotiva e può plasmare sentimenti ed azioni dei connazionali nel bene e nel male.
Ma il reale cambiamento di Belgrado, più che dalla classe politica, può iniziare se cambia la mentalità della classe degli intellettuali, il vero ed instancabile generatore del nazionalismo serbo.
Kjo do tè thotè qè un’Accademia come quella delle Arti e delle Scienze di Belgrado emette un altro Memorandum, diverso di quello del 1986.
Se emette una altra Promemoria, non quella con il titolo “Espulsione degli Albanesi”, ma “Ospitalità agli Albanesi”.
Questa speranza si afflievorirebbe solo nel caso in cui l’intelligenza, per la sua sopravvivenza, andasse a sostenere una classe politica con dichiarazioni del tipo: “Non bisogna incaponirsi con la democrazia se prima non si risolve il problema nazionale”oppure “non si può disturbare il governo finchè esso è afflitto dai problemi nazionali”.
La democrazia in Serbia, la riforma dell’economia o della sua vita politica e sociale possono sopravvivere e prosperare assieme alla neutralizzazione ed il nazionalismo. Il vero cambiamento di Belgrado inizia con la riforma dell’intellettuale serbo e della sua Academia.
Questo ideale di cambiamento ha seminato dei primi fiori: l’Università di Belgrado, molti di suoi professori e i loro studenti.
La Chiesa Ortodossa
Più di qualsiasi altro generatore di opinione della società serba, la Chiesa lega il patriottismo e il nazionalismo insieme. Nella storia dell’etnia slava dei serbi, non c’è stato nessun fattore di coesione in seno alla nazione forte come il suo.
Forse mai nessuno è stato così intelligente e acuto.
I primi poeti che inneggiarono alla nazione furono i monaci. I primi sono stati i preti che, per nascondere il sentimento di colpa del loro fallimento, costruirono la “santità” del popolo serbo. La Serbia per loro diventò terra benedetta da Dio e corona di martiri.
La Chiesa ha sempre dominato il Kosovo.
Nel Kosovo lo Zar Dushan decise il suo potere, nel Kosovo stabilì la sua sede anche la chiesa ortodossa serba.
Più tardi la classe politica spostò la sua amministrazione a Belgrado, ma la chiesa non si mosse dal Kosovo. Mantenne la sua sede. Ferma ed immutabile quando i serbi erano una minoranza ma di prima classe e gli albanesi che erano la maggioranza erano la classe infima.
Anche quando l’esercito serbo si allontanò dal Kosovo assieme ai suoi uomini e carri armati la Chiesa rimase.
La Chiesa resta perchè ci vuole per riportare indietro i connazionali. Sarebbe un gesto dignitoso in caso riuscisse veramente a far ritornare nelle loro terre e case i serbi scappati verso la metà del 1998, in maggior parte fuggiti dalla paura della vendetta albanese. La Chiesa Ortodossa Serba ha il diritto di rimanere in Kosovo anche perchè resta uno dei suoi centri storici, ma non si può trasformare in un “cavallo di Troia” per il ritorno dell’esercito di Belgrado. E nemmeno del suo potere politico.
Non può prendere il coraggio e alimentare l’illusione di rimanere nel Kosovo come guardia di Vojslav Kostunica o della piattaforma politica tradizionale serba, secondo cui il Kosovo è parte insostituibile del loro stato. I serbi fuggiti devono ritornare a Pristina, a Pej, a Prizren e ovunque abbiano vissuto prima, ma non secondo quel vecchio schema dove la classe politica, amica ed alleata sua, ricompare sulla scena per dirigere “il rientro nella terra madre” oppure “la liberazione della patria”.
La Chiesa Ortodossa di Belgrado possiede più tolleranza dei politici e degli accademici serbi della mentalità di “Nacertanije”. Si dimostra non raramente anche una sostenitrice dello spirito antioccidentale ancora virulente in Serbia. Il Patriarca Paolo nel 1992, dopo aver declinato un invito di Papa Giovanni Paolo II, disse che il Vaticano e l’Islam si erano alleati contro la Serbia.
Più tardi Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, riunì tutti i capi delle chiese per fare fronte e ristabilire dei contatti con il Vaticano. Questo nasce da una sua crisi interna, per coprire la quale, anche la Chiesa Ortodossa Serba tende ad agire per una moderazione.
Il suo più alto esponente, il Patriarca Paolo, non ha mai chiesto l’allontanamento dei kosovari “musulmani”. Anche quando gli attacchi della NATO persistevano e acuivano la sete di vendetta serba che portava allo sterminio fisico degli albanesi, chiedeva che in Kosovo potessero convivere Serbi ed Albanesi.
Artemio, vescovo del Kosovo, divenuto presto leader della sua etnia ed intelligente difensore di essa, rilasciò dichiarazioni anche i difesa dei kosovari.
Qualsiasi trascuratezza di questi segni scrupolosi che vengono dalla Chiesa Ortodossa di Belgrado è una porta la quale i popoli albanesi e serbi hanno diritto di tenerla aperta.
I albanesi
Negli anni novanta o altrimenti chiamati “miloseviciani”, a Pristina su un marciapiedi camminavano i kosovari e sull’altro i serbi.
Dopo 13 secoli di storia e lotte dolorose per la convivenza, alle soglie del terzo millennio, senza avvertire i progressi del vivere civile, le due parti finirono per scontrarsi con le armi.
Nei 1300 anni se ci fossero state circostanze incoraggianti, non solo sarebbe dovuta avvenire l’integrazione delle due etnie in un solo stato, ma addirittura la fusione di essi in una unica identità nazionale.
Invece avvenne il contrario. Trionfò l’ideale separatista. Passione condivisa da albanesi e serbi.
Quando i primi cercavano l’indipendenza per staccarsi, i secondi conducevano una pulizia etnica pianificata e mettevano in atto l’espulsione massiccia e sistematica per svuotare il Kosovo e dominarlo. La differenza nell’intendere la “separazione” è che mentre per gli albanesi questa richiesta viene fatta apertamente in modo leale, per il nazionalismo serbo ci si vuole arrivare tramite la pubblicazione dei diritti degli albanesi.
I cambiamenti iniziati a Belgrado col crollo di Slobodan Miloscevic e dei sostenitori dei suoi metodi, anche se deboli segnali di democratizzazione della questione nazionale, danno spazio a una possibilità di sperare in una lenta rigenerazione delle capacità di convivenza tra gli albanesi e i serbi.
Lo stato serbo aveva due volte più albanesi di quanti serbi avesse il Kosovo. La sola Serbia aveva una volta e mezzo meno popolazione di quanta ce ne fosse nella Yugoslavia del dopoguerra. I soli serbi come etnia contavano un quarto di tutti i suoi sottostati.
La Federazione Iugoslava, governata come un regno o uno stato comunista, è stata un’unione innaturale ed estremamente sforzata di vari popoli. Una federazione creata dai grandi poteri del tempo.
Questo miscuglio squilibrato esplose.
E come risultato ci fu che i serbi non potevano guidare uno stato multietnico nella loro nazione.
Questo accadde perché non piaceva mettere in atto un modello di convivenza di tipo americano o di altra nazione occidentale. Fallirono perché si trascinavano dietro il modello sovietico.
Lo scomponimento della vecchia Iugoslavia, oltre all’indipendenza, diede ai sloveni, croati, macedoni e bosniaci lo sviluppo democratico ed economico. Ormai nessuno continua più a pensare che i nuovi stati possano mai riformare il modello di allora della convivenza coi serbi.
Sicuramente anche in un nuovo modello con centro Belgrado.
La convivenza nel superstato che a causa della propria incapacità di unione fallì miseramente, dev’essere ancora una prova unicamente destinata ai montenegrini ed albanesi?!
Spesso si pensa che il fallimento della cultura serba di concubinato fa parte di tutta la cultura balcanica: in questa regione la virtù della civilizzazione si trova ormai a bassi livelli.
Ma in verità non è così. I balcanici possiedono una civiltà forse più sviluppata di quanto ci si potesse mai aspettare da un piccolo territorio, dove si trovano riuniti dozzine di popoli. Culture spinte storicamente a lottare tra di loro.
Forse questa costrinzione ha avuto un effetto contrario a quello desiderato. Le testimonianze di una continua ricerca di convivenza pacifica sono attuali.
Bosnia Erzegovina ha sempre avuto molti elementi interessanti della multietnia peninsulare, anche perché i rapporti di cifre tra popolazione bosniaca, serba e croata hanno dimensioni precarie. Questa convivenza nel 1993 fu colpita al cuore e sanguinò in modo spaventoso. Nessuno dubbita ormai del fatto che l’insanguinamento fu diretto da Belgrado, sotto preciso dettato di Slobodan Miloscevic.
Ormai la società multietnica antecedente alla Bosnia-Erzegovina è traumatizzata, è in stato di rianimazione e si batte per la sopravvivenza. La Comunità internazionale sta facendo di tutto perchè la riabilitazione della convivenza in essa sia completa.
La multietnia resiste in Montenegro. La sua etnia più numerosa è solo il 62%; il resto in gran parte è serba e poi vengono gli albanesi. I montenegrini hanno una antica tradizione di convivenza che deriva loro dall’essere slavi ed ortodossi. Sono diversi gli albanesi. Pur tuttavia non si può dire che dopo mezzo secolo questi rapporti siano stati turbati tali da diventare un problema di instabilità. Da diventare una minaccia per la repubblica del Montenegro. Il pericolo a Podgoriza è stato visto solo dai serbi, che sono solo il 2% in più degli albanesi.
La Macedonia è uno stato adesso autonomo e multietnico. I rapporti fra l’etnia macedone quella albanese sono fragili e di volta in volta le statistiche demoscopiche indicano che gli albanesi sono il 27% mentre le fonti albanesi dicono di essere il 42%.
Se la prima cifra sorprendente fosse vera basterebbe per rendere uno stato continuamente in pericolo ed in allarme, in procinto di esplodere.
Gli albanesi arrivati in Macedonia duplicarono la loro popolazione in tre mesi, ma nessuno di loro uscì dai ranghi nel rispetto rigoroso delle leggi dello stato ospite. Anzi, proprio per sfidare le maldicenze delle autorità e del partito nazionalista di Skopie, la popolazione albanese così raddoppiata divenne chiaramente un fattore di stabilità maggiore, anche più importante.
A causa delle regole di tolleranza della loro tradizione gli albanesi, sebbene numericamente molto minacciosi, non hanno mai destabilizzato questo nuovo stato, neanche quando era una repubblica della federazione titista o quando ancora prima era un regno.
I macedoni e gli albanesi convivono in gran parte nei parametri di una convivenza quasi normale normale ed accettabile. Nella società macedone multietnica il ruolo dei albanesi e costruttivo, anche perchè viene sentita più da vicino la mancanza di alcuni diritti, che in un’altra società multietnica moderna dovrebbero essere risolti presto.
In Montenegro nacque il timore che con i bombardamenti della NATO l’arrivo dell’improvvisa ondata migratoria della popolazione kosovara avrebbe potuto destabilizzare lo Stato già così fragile, mettendo in dubbio la propria capacità di difesa e la capacità di mantenere in equilibrio i rapporti etnici interni. Non accadde nulla di ciò, malgrado le intenzioni di Milosevic di voler dimostrare al mondo che gli albanesi erano il più grande pericolo destabilizzante e separatista nei Balcani.
Convivendo con i montenegrini e con i macedoni, due popoli slavi, gli albanesi hanno dimostrato di aver assimilato le basi di questa cultura, seppur in modo non perfetto.
Gli albanesi hanno convissuto bene e altrettanto in modo normale continuano in questa tradizione con la minoranza greca del sud dell’Albania.
Anche lo Stato albanese, trovatosi sempre nelle retrovie dei contingenti maggiori albanesi nel Montenegro e nella Macedonia, non ha mai agito in alcun modo per una destabilizzazione .
Si parla sempre di quanto sia grave il problema di una convivenza in un solo stato tra i serbi e gli albanesi.
La domanda è: in caso i cambiamenti democratici a Belgrado diventassero costanti ed importanti, possono nel nuovo millenio convivere i due popoli entro una federazione?
Possono convivere ognuno entro i confini del proprio stato?
Può essere realizzata in un futuro relativamente prosimo la convivenza tra gli albanesi e la minoranza serba che si trova nel Kosovo?
In questo secolo l’etnia albanese è stata separata ben tre volte: nel 1913 a Londra, nel 1919 a Versailles, e nel 1946 a Parigi.
Ora, all’inizio del terzo millennio, si raccomanda la logica delle regole internazionali, secondo cui i confini non possono essere cambiati. In un certo modo, questa è la quarta divisione dell’etnia albanese, dopo la leggittimizzazione delle tre divisioni precedenti.
Intanto nessuno a Tirana, Pristina, Scopie o ovunque si trovano gli albanesi ha progettato la ricostruzione del loro stato etnico. Tutti quelli che dirigono la comunità degli albanesi sanno quant’è arcaico, megalomane e pericoloso tutto questo.
Per di più nei Balcani.
I kosovari tentano di ricostruire uno stato indipendente che non faccia parte di un simile progetto. E’fondamentalmente l’unica via che possiedono per poter fuggire all’insistenza ripetitiva di Belgrado.
La dipendenza dai serbi appartiene ormai a un capitolo chiuso per gli albanesi del Kosovo.
Rimane aperta la questione su come si possa risolvere il problema anche a causa di un altro fatto: anche i serbi considerano chiuso il capitolo dell’accettazione del Kosovo nel loro stato o in una piccola federazione dove, essendo la maggioranza, possano comandare.
Uno stato indipendente dal nome di Kosovo o Dardania, come progettato dal dirigente principale degli albanesi in questa plaga, Ibrahim Rugova, debba essere uno stato indipendente, smilitarizzato, aperto verso l’Albania e la Yugoslavia.
Fungere da intermediario.
O da “ponte di collegamento”.
Non può diventare, con queste qualità, destabilizzante per i Balcani e nemmeno per la Serbia.
Ma la comunità internazionale ha posto un pieno embargo al desiderio del popolo albanese del Kosovo di appartenere a uno stato indipendente. Coltiva la speranza di non dover mai dare spazio a questa necessità. Ha offerto per lo scopo la soluzione intermedia: il suo protettorato.
La maniera in cui la comunità ha esercitato fino ad adesso il protettorato lascia intendere agli albanesi di aver esaudito un desiderio principale: l’indipendenza da Belgrado.
La dipendenza del Kosovo si è ormai trasferita ad OKB.
Questo ha abbassato i toni in cui la popolazione albanese e i suoi leader chiedono sistematicamente l’indipendenza, paralizzando anche gli albanesi radicali.
In seguito, dopo aver acquistato nell’ottobre 2000 il diritto di scegliere i propri amministratori del potere locale, non sono state rifiutate agli albanesi le elezioni generali politiche per l’anno 2001 o forse poco dopo. Questo sta a significare che il Kosovo avrà ben presto il suo governo e che da quel momento la comunità internazionale perderà il diritto del suo pieno protettorato.
Ma le truppe militari internazionali rimarrano là, immobili, indossando sempre la solita divisa Kfor. “Il protettoriato” seguirà in altre forme tentando di tenere sotto controllo i rapporti tra Pristina e Belgrado, che seguirano come prima: gli albanesi del Kosovo si autogovernerano sotto il controllo dell’OKB. La Serbia continuerà la sua democratizzazione.
In questo modo non ci sarà nei Balcani un nuovo stato indipendente come non potrà esistere una federazione iugoslava con centro Belgrado ed il Kosovo dentro la propria costituzione.
Sembra che ciò sia stato accettato senza però esprimerlo pubblicamente dai nuovi dirigenti di Belgrado. Lasciando il Kosovo come un protettorato internazionale eliminano anche se per poco il problema scottante del suo ritorno in Serbia o nella federazione. Nello stesso momento paralizzano anche i loro avversari nazionalisti radicali.
La nuova classe della politica serba vede come urgente il trattenimento del Montenegro nella federazione. Continua a creare e a rendere pubblici i progetti della Federazione della Serbia e del Montenegro, dove le concessioni a Milo Gjukanovic diventano sempre più grandi. L’unica uscita in mare di Belgrado è troppo vitale.
Vojslav Kostunica sa che il protettorato internazionale sul Kosovo da tempo a lui e ai suoi collaboratori di trovare una soluzione veloce ai problemi con Podgoriza, in modo da facilitare l’intrusione verso Pristina.
Questo fase di passaggio, dove il Kosovo si troverà sotto il controllo internazionale, non sembra dover surare a lungo. Gli analisti americani resero pubbliche all’inizio del 2001 le loro ipotesi. Secondo loro, il Kfor rimarrà dai 15 ai 25 anni.
Se questo risulterà vero, getterà luce anche su un’altra ipotesi: la comunità internazionale mira la creazione di un Balcano Riunito, costituito da stati aperti l’uno all’altro, un modello dell’Unione Europea ai suoi inizi.
In questo modo la parte sudest del continente, attualmente la più difficile da trattare, si potrà integrare nell’UE.
Forse si potrà neutralizzare così la richiesta d’indipendenza degli albanesi del Kosovo e la pretesa dei serbi di poterlo riavere.
La maggior parte degli albanesi credono di essere stati “condannati” a convivere con i serbi. Non sono pochi i Serbi che la pensano allo stesso modo: anche loro sono “condannati” a convivere assieme agli albanesi.
Nessuno di loro ha intenzione di muoversi e abbandonare i Balcani.
Nello stesso momento nessun popolo ha la possibilità di scegliere i propri vicini.
Gli albanesi continuerano ad essere vicini dei serbi e viceversa.
Nel caso sembri possibile una soluzione su come dare il via alla convivenza tra la Serbia (o la Iugoslavia rimasta) ed il Kosovo, appare molto difficile il fenomeno costretto entro così poco spazio.
Le due parti si trovano troppo vicine.
Quà le testimonianze della crisi secolare tra i serbi e gli albanesi sono visibili ad ogni passo. Il prezzo è il sangue.
Non sono solo fallite in Kosovo le relazioni tra albanesi e Milosevic, è fallita proprio la convivenza fra i serbi e gli albanesi.
Se i diec’anni di Slobodan Miloscevic non ci fossero stati, forse questi versi fatali e tragici sarebbero stati ricordati di meno. Sarebbe stato ancora minore il sentimento di vendetta di quelle migliaia di albanesi massacrati dalla pulizia etnica dei paramilitari mandati da Belgrado. La vendetta degli albanesi è stata grande e insosteniblie anche molti mesi dopo l’entrata delle truppe di Kfor solo perchè Miloscevic si trovava ancora a dirigere lo stato.
Per punizione furono cacciati migliaia di serbi, furono brucciate delle case. Degli albanesi hanno perfino ucciso degli innocenti civili dell’altra etnia.
Dal fatto che elementi isolati dell’etnia albanese arrivavano al punto di sparare raffiche contro i contadini serbi mentre questi arano la terra, oppure che lanciavano bombe a mano nei negozi serbi nelle ore di punta, si può trarre una prima conclusione sconvolgente: ci sono albanesi che in modo eclatante dimostrano di non volere la convivenza con i serbi.
Non si eslcude che alcuni albanesi vendicativi si nutrano di odio anarchico di autogiustizia, anche se è d’obbligo dire che le famiglie kosovare che furono veramente massacrate dai paramilitari serbi, non hanno commesso nessun atto di autogiustizia.
Non si può neanche escludere il dubbio che squadroni punitivi siano incitati da ideologi della pulizia etnica.
Non si può e non si deve dimenticare che negli angoli scuri e sporchi della società albanese, inficiati gravemente dalla crisi del difficile sbocco nella democrazia, operano agenti che desiderano compromettere il progresso nella regione e usano la loro astuzia da ruffiani per distruggere definitivamente il sogno pacifico degli molti albanesi e della sua classe politica: un Kosovo multietnico.
Ora più che mai, dopo l’allontanamento delle truppe militari serbe, i dirigenti albanesi sono coscienti che il desiderio di non essere uno Stato multietnico, non ha futuro. Sanno che senza un Kosovo multietnico viene compromessa e fallisce davanti a tutto il mondola loro guerra per la libertà come anche il grande impegno umanitario della comunità internazionale.
Essa, così come intervenne militarmente per salvarlo nella primavera del 1999, così puo neutralizzarlo, non permettendo che sotto il nome di guerra contro il pericolo dei serbi si celi un nuovo pericolo degli albanesi.
Preoccupati di non riuscire a controllare la controazione vendicativa di diversi connazionali, i politici kosovari hanno aumentato i richiami verso gli albanesi per interrompere gli atti di violenza contro la popolazione serba, anche se non nascondono il fatto che in confronto con un o due anni prima, il loro numero è tre volte minore.
Davanti a loro c’è ormai una sfida di Bernard Kushner, fino a gennaio 2001 amministratore dell’OKB sul Kosovo. Nel suo discorso d’addio, invitò i politici del posto a raggiungere al più presto il giorno in cui, come in Spagna, tutto il popoli esca per strada a condannare gli assassini e gli atti isolati di violenza tra serbi ed albanesi.
Kushner è uno dei pochi a sapere che la riabilitazione dei rapporti normali tra Pristina e Belgrado chiede tempo, molto tempo.
Sicuramente non seicento anni.
Ma nemmeno trecentosessanta giorni.
I politici albanesi sono stati predisposti alla convivenza con i serbi o i slavi in generale. L’esistenza di due grandi lingue epiche, albanese e slava, con molti elementi in comune, testimoniano la lunga convivenza fra i due popoli.
La compartecipazione ad una battaglia, 1389, che cambiò il corso della storia dei Balcani, prova la stessa cosa.
Il loro eroe nazionale, il re del cristianesimo Gjergj Kastriot Skanderbeg, ha tenuto stretti rapporti con i serbi come anche suo padre, il re Gjon. I lolo legami divennero più forti con la guerra comune contro l’invasione turca e la corsa della religione islamica. Due dei fratelli di Skanderbeg avevano dei nomi slavi come Stanish e Radesh, anche se sicuramente di origine albanese. L\\\\\\\\\\\\\\\'uso di questi nomi da parte della popolazione albanese e perfino dalla famiglia reale, non testimonia altro che il desiderio di convivenza.
Sotto il dominio turco i due popoli soffrirono insieme.
Soffrirono insieme anche durante l’invasione dei fascisti. La resistenza di liberazione albanese durante la II guerra mondiale cercò come compagni d’armi gli serbi. L’ultimo atto di convivenza venne scritto con la morte di centinaia di partigiani, che nelle due divisioni provenienti dall’Albania, dovettero combattere per la liberazione delle terre iugoslave alla fine del 1944 e durante l’inverno e la primavera del 45.
Non sono mancate le espressioni da parte degli albanesi del loro desiderio d’intesa anche alla soglia della dichiarazione d’indipendenza dell’Albania.
Alla vigilia dell’indipendenza, nel 1911, il Generale popolare kosovaro Isa Buletini era in visita ufficiale in Cetinia, Montenegro. Nel 1912, quando venne dichiarata l’indipendenza dello stato albanese, il presidente Ismail Qemali dichiarò pubblicamente il buon vicinato con i serbi e i montenegrini.
Allo stesso modo agirono Fan Noli, capo di un governo degli anni’20 e Ahmet Zogu, re albanese degli anni’30. Quest’ultimo vedeva in Belgrado un alleato.
Milan Panic e Momir Bulatovic visitano Tirana alla fine degli anni ottanta. Nel 1994 una delegazione albanese dell’opposizione liberale andò a Belgrado.
Nel 1997 il Presidente del Consiglio Fatos Nano andò a Creta e incontrò pubblicamente Slobodan Miloscevic.
Ibraim Rugova incontrò Miloscevic per cercare un accordo sulla riapertura delle scuole albanesi…
Quando Pristina bruciava nella primavera del 1999 nessuno dei 35.000 albanesi residenti a Belgrado o qualcuno uscito dal Kosovo tentò di mettere in atto un attentato terroristico nella capitale serba. Neanche una sassata che abbia infranto un vetro.
L’Albanese del Kosovo imparò anche la storia serba, pubblicò poesie in antologie senza distinzione di etnia, frequentò le stesse scuole, fece il soldato assieme.
Il mondo non può dire che gli albanesi furono i fautori della frattura di una convivenza. Il mondo si deve ricordare che negli anni duri di questo fine secolo, quando era stato emesso l’ultimo rantolo della speranza di una convivenza fra i serbi e gli albanesi, i kosovari avevano messo a capo di essi il politico più pacifista di tutti i tempi: Ibraim Rugova. Lui è l’uomo della convivenza con i serbi, è scritto dappertutto..
Non può accusare gli albanesi di non aver voluto convivere con i vicini serbi. Questa è stata sempre la loro linea di condotta, a cui delusioni infinite e slealtà non sono state risparmiate.
Quando i serbi formarono il loro stato e potevano scegliere la via della convivenza in modo organizzato, misero in atto il contrario, iniziando la bonifica etnica degli albanesi.
Ora che i serbi hanno pagato le conseguenze delle loro azioni ultranazionaliste e desiderano costruire un nuovo stato democratico, devono capire che un simile gesto dignitoso non può seguire le orme precedenti.
Gli albanesi, sempre le prime vittime e martiri dei vecchi Balcani, devono credere in un futuro e avere una storia diversa se combatteranno pubblicamente per crearla, ma solo e sempre per mezzo della politica della cultura, dell’economia, della storia e della diplomazia.
Non si può sottovalutare e anzi sorridere a chi sostiene, come farebbe uno psichiatra albanese, che il nazionalismo sia un fattore biologico patologico insito nell’etnia serba. Secondo questo professore questo difetto si è accresciuto con le guerre fatte dai serbi contro i vicini, dal loro senso di superiorità, dalla possibilità di armarsi in modo migliore, dal senso di gelosia ed invidia per la prosperità raggiunta dai croati e dagli sloveni, per il loro standard di vita migliore.
Questo Dottore-Professore pensa che i serbi abbiano questa deformazione genetica per cui è una naturale spinta biologica quella per cui generano nuovi conflitti, per cui sentono disprezzo tale da colpire la civiltà altrui.
Questo medico psichiatra afferma che l’esplosione dell’aggressività dei serbi nasce dal senso di inferiorità che avvertono rispetto agli altri popoli dei Balcani.
Ma i serbi non sono cosi. Hanno realizzato il multipartitismo, la libertà di stampa, la concorrenza elettorale. Un giorno raggiungeranno pienamente la democrazia di tipo occidentale.
Anche gli albanesi hanno tanta strada davanti per poterla realizzare.
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